CARMINA PARMA / IL PARADOSSO DEL TARDINI: SOLE DALL’ALTO, OMBRE IN CAMPO
(Luca Savarese) – Il paradosso del Tardini: sole dall’alto, ombre in campo, si è consumato davanti ad un Catania venuto a Parma non certo per fare una gita. Pochi gli spettatori etnei sugli spalti, densissimi gli uomini di Maran in partita, che hanno arginato e bene, l’armata donadoniana, apparsa una copia in bianco e nero delle precedenti confortanti apparizioni. Nella quiete dopo la tempesta romana (il non giocare nella capitale anziché far riposare sembra aver
staccato la spina della tensione), quando molti prevedevano una festa, è venuta fuori una gara tosta, sì, ma solo dalla parte del Catania. E’ maturato l’ennesimo zero a zero, ma al confronto degli altri – pareggio contro il Chievo a reti bianche nel primo giorno di scuola di questo campionato, contro il Catania all’andata al Massimino e quello contro il Cagliari, il 15 dicembre, vigilia del centenario-day, quindi sotto una certa ansia di attesa per gli eventi celebrativi (verso i quali spesso gli attuali portacolori sono restii a far corrispondere anche una consonanza tecnica
adeguata) – questo è quello che brucia di più, perché si poteva e doveva fare qualcosa di più, in tutti i reparti; dietro, dove la retroguardia non è apparsa la Maginot che ci aveva ben impressionato ultimamente, in mezzo, dove solo con l’ingresso di Acquah al posto del fratello statico di Gargano, si è vista un po’ di verve unita a disinvoltura, e davanti dove l’Ama-Ca, l’Amauri-Cassano forse per omaggiare il
novello acronimo che ben ne accompagna i gesti, si è presa un pomeriggio di relax ed è andata a sdraiarsi su un’amaca vera e propria, il numero 11 ed il 99 infatti, più che la lingua del gol ieri pomeriggio sembravano aver parlato il gergo del sonnellino. Il pari di oggi somiglia molto ad aver un bell’aereo a disposizione (preparato dal Bologna che ferma il Toro e dalla Juve che non fa vincere il Verona) e dire “No grazie, oggi noi preferiamo prendere il monopattino”. Non si spiega quindi quella svogliatezza di ieri, certo il ritmo che gli etnei hanno impresso all’agone è stato abbastanza alto, fatto che non giustifica la prestazione amorfa, ma va ancora più alla radice del problema: il Catania, ultimo in classifica, ha provato a giocare a calcio, il Parma desideroso di stabile aria di Europa League, ha subìto il gioco del calcio, finendo per risultare scontato, sterile e svogliato. Sembrava quel preciso momento storico della letteratura italiana dopo il Rinascimento e prima della scossa Barocca: detto della svogliatura o svogliatezza, una strana accidia ha pervaso i nostri, incapaci di imbastire azioni da gol degne di questa dicitura e dunque cercate, volute, desiderate. Due fotogrammi su tutti rendono bene l’idea di uno scialbissimo ed incolore pomeriggio crociato: Jonathan Biabiany lontano dall’essere il gabbiano Jonathan che tutti apprezziamo, ma come macilento e quasi claudicante nei movimenti, pigro nei dribbling, al solito il suo pezzo forte, scarsamente lucido in quella frazione di secondo dove è necessario decidere se andare sulla fascia, o proporsi altrove. Un altro fotogramma scaturisce da un episodio capitato ad Antonio Mirante, altro flash della giornata delle varie amnesie. Nella ripresa, lancia corto un pallone (non è da lui) e quasi il Catania non trova il gol della domenica. Due fotogrammi che fortunatamente non hanno prodotto nessun film gramo e dal finale thriller, intitolato Parma che batosta, ma alla fine è venuto fuori un cortometraggio ibrido dal titolo Parma nessuna risposta. Parma scettico ed indolente, che ha trotterellato debolmente il suo Chissà?, senza mai imprimere il suo Io so. Paragonato ad uno studente, sembrava quel caso in cui gli pongono due domande abbastanza abbordabili e che gli varrebbero l’8, ma si barcamena rispondendo qualcosina, non mostrando alcuna certezza né dando l’aria di una grande convinzione e ottenendo un sei meno meno. Se fosse invece stato uno scultore, il Parma di ieri sarebbe stato come quell’artista, che alla bella statua che sta compiendo, nel giorno in cui avrebbe dovuto finire le tre dita della mano destra, ne fa solo una. Due punti persi, non uno guadagnato: m’iscrivo sic et simpliciter a questo partito, non c’è stato lo scalpello dello scultore che dalla materia informe crea e suda sette camicie per creare forme uniche. Il Catania quando gioca al Tardini trova un gusto particolarissimo di produrre una gran mole di gioco, il Parma di ieri, in definitiva, è stato troppo insipido per essere vero, due spaghetti senza sale né pomodoro. Annibale Frossi, nato nel 1911 a Muzzana del Turgnano e morto a Milano nel 1999, ex giocatore, negli anni anteriori al secondo conflitto mondiale, (dove essendo miope giocava con gli occhiali), ed in quelli posteriori allenatore di calcio e giornalista elaborò una teoria che poi divenne un vero e proprio assunto per molti addetti ai lavori: lo zero a zero è il risultato perfetto, perché esalta le prestazioni dei portieri ed evidenzia un insieme quasi classico di armonia, equilibrio, perfezione formale tra i reparti. Caro Annibale, ieri converrai dai cieli con me che se fossi stato a vedere Parma-Catania, con le lenti del Parma, avresti un tantino modificato il tuo pensiero ed avresti convenuto che questo tipo di zero a zero, per i padroni di casa, è stato un risultato imperfetto, cioè letteralmente incompiuto, vuoto. E perfetto non lo è stato nemmeno per il Catania, perché un punto al Tardini – al cospetto del Parma del 2014 – è stato più che perfetto, è stato d’oro; la terza perla che serviva ai siciliani dopo aver fermato Inter e Livorno, per non lasciare da solo, il sogno-salvezza. Bianco e nero del Parma siano solo i colori della sua croce, non la qualità delle fotocopie della recente buona semina, che non si fermi proprio ora. Caldo, al limite anche freddo, ma non più così tiepido. Luca Savarese