CATTIVO CITTADINO, di Gianni Barone / PARADOSSO ITALIA: VITTORIA O DISASTRO?
(Gianni Barone) – La parola disastro evoca sempre qualcosa di negativo: una sciagura o giù di lì: quindi, accostata ad una vittoria, potrebbe essere quanto di più assurdo e impossibile si possa immaginare. E in effetti una vittoria ai tiri di rigori, dopo aver impattato nei tempi regolamentari e supplementari (1-1) meriterebbe una migliore collocazione anche dal punto di vista verbale. Però, lasciateci obiettare e liberamente discettare su ciò che una vittoria all’Europeo più indurci, benevolmente, a pensare. La parola, paradosso, la nostra preferita (insieme a disastro in una accezione positiva del termine difficile da spiegare) per l’occasione, dal greco antico “doxa”, ha la stessa radice di dogma e vuol dire “opinione, pregiudizio, fede”: tutto molto pertinente con il contesto che andiamo a sviluppare. Para significa “contro”, (la contro-persona direbbe l’indimenticato Francis): quindi, insieme, i due termini hanno il significato di “ciò che contraddice l’opinione corrente, ciò che è incredibile”. L’opinione corrente ci dice che siamo i più forti d’Europa a calcio, mentre ciò che è incredibile e che la Nazionale italiana, pur con altri uomini e altri tecnici, altri dirigenti, fino a tre anni fa non era stata nemmeno in grado di essere ammessa alla fase finale dei Mondiali e ora si trova qui, sul tetto d’Europa, dopo aver sconfitto, ai tiri di rigore, e con il gioco, fate vobis, gli inventori del calcio che politicamente sono appena usciti con la Brexit, dall’Unione
Europa (forse per questo che si sono complimentati con Draghi sia la Merkel, che come lui non riteneva Londra la sede ottimale per l’epilogo, vista la diffusione variante locale della pandemia, sia laVon der Leyen? Non a caso lor signore accennavano a vittoria dell’intera Europa unita… Successo che, secondo una illustre docente della Luiss Guido Carli, solleverà l’economia italica) e con il pallone erano stra-convinti di trionfare nell’intero continente. Paradosso su paradosso di giunge fino alla serata di Domenica 11 Luglio 2021 che ha decretato la vittoria di una Nazionale di calcio, nel cui campionato, tutte le migliori, o per lo meno le prime quattro o cinque squadre, nelle loro formazioni titolari schierano si e no due o tre giocatori italiani. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: Inter, piena zeppa di stranieri, Campione d’Italia, con il solo azzurro Barella, fisso nella formazione prevalente in base al
minutaggio; Milan, secondo, altro feudo di giocatori non italiani con le sole eccezioni, sempre in base alle presenze, di Donnarumna (citato dal Premier italiano durante il secondo incontro istituzionale, susseguente a quello col Capo dello Stato, che come Pertini 39 anni anni prima a Madrid ha menato buono) e saltuariamente Calabria e Romagnoli; non parliamo della Juve che oltre a Chiellini e Bonucci nell’undici titolare non ha annoverato con continuità, Chiesa e Bernardeschi, decisivi con gol e rigori nell’Italia Campione all’Europeo. E si potrebbe andare avanti con il paradosso, anche facendo riferimento ad altre squadre tipo l’Atalanta, quasi tutta straniera tranne il portiere e con Pessina, anch’egli decisivo per Mancini con i suoi goal, quasi sempre impiegato a partita in corso. Quindi l’interrogativo pressante è: “Com’è che la Nazione campione che tutti acclamano, in campionato ricorre, coi club più prestigiosi, in maniera così massiccia all’impiego di giocatore d’oltralpe e d’oltrecortina, trascurando i presunti talenti locali?” Sarebbe interessante che qualche dirigente fosse in grado di rispondere alla questione senza ricorrere ai luoghi comuni banalità, come quelli che hanno condito le cronache e commenti post partita sia su Rai che su
Sky. A proposito di Rai: la sostituzione del titolare Alberto Rimedio, positivo al COVID, con Bizzotto, affiancato dalla commentatrice “puledra di razza”, Katia Serra, pur non essendo in presenza di una telecronaca indimenticabile dal punto di vista della spontaneità e della genuinità, con troppo ricorso all’archivio, per lo meno non ha portato male, come era successo in passato nei precedenti del ’70 (staffetta Carosio/Martellini) e dell’86 cambio per motivi sanitari con Pizzul in luogo di Martellini. Il quale Martellini, che aveva commentato nel ’68, l’ultimo e fino a ieri unico successo europeo degli azzurri, ci è mancato e ci continua a mancare parecchio, perché nessuno dei suoi successori, Pizzul compreso, riesce ad essere il suo degno emulo nel commentare, senza urla e senza fragore eccessivo, con garbo stile, eleganza e professionalità, le imprese vincenti del Club Italia. Per essere bravi non occorre urlare e neanche
essere tifosi “ossessivi/ compulsivi”: basterebbe dire, come fece lui al Mondiale 82: “lo meritava Zoff, lo meritava Cabrini, lo meritava Scirea”, e via elencando tutti i protagonisti, anche se nell’occasione, si dimenticò, nella foga, il nome di Collovati… E dopo 53 anni, a Mancini è toccata la sorte di Valcareggi, che nella sua carriera azzurra vinse solo quel titolo, ma per farlo dovette piegare la resistenza della Jugolavia (allora uno squadrone con giocatori di attuali sei repubbliche indipendenti) non con una partita, terminata 1-1 dopo i supplementari, ma con la ripetizione in cui ebbe la meglio per 2-0 con gol di Anastasi e Riva. Particolare curioso tra la prima e la seconda gara, il Cittì “Uccio” (così veniva chiamato con affetto nell’ambiente) cambiò radicalmente la formazione passando da un 4-3-3 (anche se allora si giocava col modulo a uomo
e non c’erano i sistemi) ad un 5-2-3, con l’innesto di ben 5 giocatori nuovi: Salvadore libero al posto di Castano, De Sisti a centrocampo al posto di Ferrini, Mazzola al posto di Juliano, Riva in avanti al posto di Prati, con la variante tattica di Rosato (stopper aggiunto) in luogo del mediano Lodetti. Cambi che si rivelarono, a quanto pare, fruttuosi al cospetto degli “slavi” che tra le due gare operano, nella formazione una sola sostituzione causa infortunio. Corsi e ricorsi storici, a parte, allo stile catenaccio di Valcareggi ora la vittoria di Mancini, passerà alla storia come la vittoria del calcio giocato, offensivo, propositivo e divertente e chi più ne ha più ne metta. Perché nella serata di Wembley mentre, al termine, Vialli e Mancini si abbracciavano, quasi in lacrime, a noi sono venute in mente tante cose però la più divertente è quella dell’immagine finale del film “L’allenatore nel pallone” in cui Oronzo Canà (alias Lino Banfi che non aveva fatto mancare a Mancini il suo apporto sussurrandogli con un video di utilizzare la sua bizona 5-5-5) viene portato in trionfo dai due “gemelloni”, e dice loro “Mi avete preso per un coglione”, “No, per un eroe”, rispondono loro. “No – ribatte Canà – per un coglione”, inteso come testicolo, strizzato da chi lo sorreggeva. Ecco a Mancini, che qualcuno, tre anni fa, noi compresi, dava del visionario lui avrebbe voluto rispondere alla Canà, così: “Ma mi avevate preso per un coglione?”. E questa volta la strizzata, fisica, di “cabbasisi”, non c’entra per nulla. Gianni Barone
Bell’articolo.
Non condivido solo una cosa: Pizzul per me è stato il migliore. Martellini era bravo, ma noiosissimo.
Ma forse perché sono troppo abituato alle urla di oggi… eccessive, inutili. Fuori luogo.
Rete rete rete. Come urla quel buffone di Sky
A maggior ragione una Nazionale che vince con pochi italiani titolari nei club principali della A merita un grande inchino. Lavoro spaziale da parte di Mancini.
Strano che no abbia attinto a piene mani tra i nostri italiani titolatissimi. Da Sepe a Iacoponi, passando per Grassi, Gagliolo, Pezzella. Grassi non lo cercano neanche dalla serie B greca. L’unica è metterlo nel Tide.